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Riflessioni sullo Champagne moderno

 

Nel 2010 al largo delle isole Aland, arcipelago situato tra Svezia e Finlandia, venne scoperto un Brigantino affondato nel 1842. All’interno vennero trovate 168 bottiglie di Champagne (strano il destino! Esattamente 168 anni dopo) di tre diverse Maison: Veuve Cliquot, Heidsieck e Juglar (poi diventato Jacquesson).

Le bottiglie si trovavano ad una profondità di 50 metri con una pressione di 6 atmosfere, pari a quella all’interno della bottiglia. Questa fortuita condizione, unita al buio totale e all’umidità, ha fatto si che le bottiglie, degustate da un Panel di esperti di tutto riguardo, fossero giudicate in gran parte, ancora perfettamente bevibili.

Questa insolita degustazione, ha dato la possibilità ai fortunati assaggiatori, di avere la conferma sulla “taratura dei dosaggi” alla metà dell’Ottocento, ovvero di capire quanto zucchero si aggiungeva all’epoca, dopo la sboccatura.

Era già noto che gli Champagne venivano pesantemente dosati con quantità di zucchero che ora non troveremmo nemmeno nelle bibite analcoliche. I dosaggi però variavano a seconda del mercato a cui venivano destinate le bottiglie. Il mercato Russo e Tedesco per esempio, richiedeva Champagne con dosaggio di 200 g/L, mentre per quello Francese si dosava con 150/160 g/L. L’America invece richiedeva circa 100 g/L ed infine per il mercato Inglese, da sempre amanti di una “bevuta” più secca, si abbassava sino a circa 50g/L.

Tornando ai giorni nostri, nel 2010 la percentuale di mercato degli Champagne non dosati era solo dello 0,08% ma già dopo 10 anni subisce un’impennata e guadagna una quota pari all’11,8% del mercato.
Sempre più spesso, parlando con enotecari e ristoratori, ma anche con appassionati bevitori di Champagne, mi accorgo che la prima domanda che mi rivolgono quando gli faccio assaggiare uno Champagne è: “che dosaggio ha”?
Nonostante la frequenza con la quale mi venga posta, continuo sempre a stupirmi di ciò che ne consegue. A seconda della mia risposta si notano cenni di diniego o di approvazione, come se la piacevolezza della bevuta in corso, cambiasse repentinamente al solo udire di questi numeri riportati in una scala che ne definisce le categorie.
Io sono assolutamente convinto che il dosaggio non sia in nessun modo collegato alla qualità del vino.
Se bastasse bere Champagne non dosati per bere ottimi Champagne, sarebbe estremamente facile fare la giusta scelta. In realtà, la questione è molto più complessa di quello che sembra.

E’ indiscutibile che, seguendo i gusti del mercato, da molti anni tutte le più grandi Maison abbiano abbassato il dosaggio per i loro prodotti più esclusivi ovvero le Cuvèe de Prestige, ma praticamente nessuna lo ha eliminato completamente.
Ma andiamo ad esaminare nello specifico, Maison per Maison.

-Dom Perignon ha un dosaggio medio di 5 g/L.
-Cristal di Roederer di 7 g/L.
– La Grande Annèe di Bollinger di 8 g/L.
-Salon di 5 g/L.
– Vintage di Krug di circa 5/6 g/L.
– Comtes De Champagne di Tattinger di 9 g/L.

Allora perché molti sostenitori del “NON dosato ad oltranza” si ostinano a dire che il Grande Champagne è solo quello senza dosaggio? Secondo quale regola affermano questo?
Volendo analizzare i motivi che portano un consumatore a propendere verso il Dosaggio Zero, potrei ipotizzare che si tratta di una moda del momento e liquidare così la faccenda.
In parte forse è vero, ma credo che “la Moda del Dosaggio Zero” non sia fine a sé stessa, ma strettamente legata alla “Moda del vino Naturale”. Ho potuto valutare che i seguaci più radicali di questo filone sono propensi a considerare il dosaggio dello Champagne come un’immissione di un ingrediente esogeno ed estraneo al vino.
A onor del vero però, lo zucchero nella produzione di Champagne viene usato anche prima della sboccatura, esattamente nel Tiraggio, fase tra la prima e la seconda fermentazione, ma questo zucchero spesso non viene considerato come un “intruso”, o forse non si è a conoscenza di questa pratica.

Credo valga la pena fare anche un’altra riflessione riguardante il Dosaggio e cioè che non ha assolutamente il compito di “dolcificare” ma bensì di creare armonia tra i vari elementi e nel contempo, dare la possibilità al vino di resistere a lungo nel tempo.
L’assioma “vino non dosato” uguale “vino che esprime il territorio” è assolutamente errata e forviante.
Per prima cosa, dobbiamo ricordare che lo Champagne è da sempre un vino frutto di assemblaggi di annate, vitigni e vigne diverse in cui lo stile della Maison è il tratto distintivo che ci fa innamorare di questo o di quel produttore.
Nel valutare uno Champagne, il fatto che sempre più spesso le Grandi Maison o i Recoltant producano Champagne “Parcellari” (ovvero ottenuti da singole Vigne di un determinato Cru) non ci dovrebbe spingere a fare dichiarazioni superficiali a proposito della corrispondenza con la sua territorialità: potremmo essere tratti in inganno.

Il sostantivo Terroir non può essere tradotto dal francese all’ italiano con la parola Territorio, perché in Francia con queste sette lettere si indica l’unione di tre elementi imprescindibili l’uno dall’altro: il Territorio (certo!) ma anche il Clima di quella specifica zona geografica con la sua rispettiva morfologia ed infine (con la medesima importanza) il Savoir-Faire umano.

Conoscere tutte queste varianti e RI-conoscerle in un bicchiere, richiede una conoscenza approfondita della zona di produzione dalle mille sfaccettature, esperienza degustativa e capacità di valutazioni che vada ben oltre la piacevolezza del vino. Saper identificare dei tratti specifici non è un “gioco d’azzardo”. Non è giocare a riconoscere una persona fra mille dopo averla vista solo in fotografia per pochi secondi. Presuppone ad esempio, che il degustatore convinto di riscontrare il “rispetto del territorio” sappia effettivamente quali siano i tratti distintivi di quel territorio. Sappia riconoscere uno Champagne prodotto con uve di Cramant da quello prodotto con uve di Avize. Dandogli un compito meno gravoso, che sappia almeno identificare uno Champagne prodotto da uve coltivate nella Valle della Marna da quello prodotto con uve della Montagna di Reims. Credetemi! Questa disamina è molto più difficile di quello che si possa immaginare ed ammiro chi ne sia capace ed usi nell’analisi del vino la giusta terminologia solo e soltanto con cognizione di causa.

Traendo le somme di questa riflessione, possiamo dire che il Dosaggio negli Champagne è giustamente calato. Negli ultimi anni e per la maggioranza degli Champagne si è ora attestato tra i 5 e gli 8 g/L.
Ora i produttori hanno altre armi oltre allo zucchero per la conservazione dei loro Champagne. Principalmente la loro bravura, che ha fatto crescere uve sempre più sane, poi il cambiamento climatico, che ha fatto la sua parte portando temperature alte in zone dove non tantissimi anni fa si aveva difficoltà a raggiungere la perfetta maturazione delle uve e non ultime le nuove pratiche di cantina che hanno dato grandi vantaggi in fase di sboccatura riducendo al minimo l’uso della solforosa.

La conoscenza raggiunta dall’uomo è un tesoro impagabile. Non dobbiamo mai dimenticare che la bellezza dello Champagne, come di tanti altri grandi vini, sta nella simbiosi tra Uomo e Vigna. Ma non c’è nessun altro vino al mondo in cui l’uomo abbia un ruolo così determinante nella sua riuscita. Per fare uno Champagne, serve Maestria, Tempo e lungimiranza.

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