Perché diversificare, vi chiederete?
Il proverbio dice: non mettere tutte le uova nello stesso paniere che, in linguaggio finanziario, significa: diversifica.
E ancora, sempre in gergo da gestore patrimoniale: gli investitori che desiderano ridurre la volatilità e migliorare la diversificazione del proprio portafoglio stanno includendo sempre più frequentemente asset alternativi.
Ma perché ridurre la volatilità? E come?
In teoria, ridurre la volatilità significa anche ridurre i rendimenti. L’obiettivo di un investitore attento, quindi, è mitigare la volatilità quel tanto che basta da rendere più stabile il portafoglio, senza sacrificare troppo i guadagni futuri. Un esercizio di equilibrio: dormire sonni tranquilli senza restare indietro rispetto al mercato.
Per riuscirci, è fondamentale combinare asset che non si muovano tutti nello stesso modo. In altre parole: la correlazione è la chiave.
Se possiedo un ETF che replica l’S&P 500, idealmente vorrei abbinarlo a un asset che salga quando il mercato azionario americano scende. Un asset che si muove sistematicamente in direzione opposta ha una correlazione negativa perfetta, pari a -1.
La correlazione si misura su una scala da +1 a -1:
- +1 indica un movimento perfettamente sincronizzato
- 0 indica assenza di relazione
- -1 indica un movimento perfettamente opposto
Ora, qualche realtà scomoda:
- Asset con correlazione negativa perfetta non esistono.
- Se esistessero, i guadagni di uno cancellerebbero le perdite dell’altro, rendendo il rendimento atteso pari a zero.
- Nei momenti di crisi, quando la paura è collettiva, la correlazione tende ad aumentare: anche gli asset normalmente decorrelati iniziano a muoversi nella stessa direzione.
Tornando alla costruzione del portafoglio: l’obiettivo è combinare asset debolmente correlati ma con rendimenti positivi attesi, gestendo nel contempo altri rischi come la liquidità o l’incertezza nella valutazione.
La percentuale da assegnare a ciascun asset dipende dalla ricchezza, dall’orizzonte temporale e dagli obiettivi dell’investitore. Il portafoglio tradizionale prevede una quota maggiore di azioni nei primi anni lavorativi (più tempo per recuperare eventuali perdite) e un aumento della componente obbligazionaria man mano che ci si avvicina alla pensione. Negli ultimi anni, però, sempre più investitori si stanno orientando verso gli investimenti alternativi.
Ed è qui che entra in gioco il vino da investimento.
Come ogni buona cosa, va consumato con moderazione. In termini finanziari, ciò significa dedicare a questo asset una quota generalmente non superiore al 5% del portafoglio salvo nel caso di grandi patrimoni (esistono metodi rigorosi per stimare questa soglia, come indicato in questo articolo).
Perché questa cautela? Perché sebbene il vino da investimento offra vantaggi reali, presenta anche alcuni svantaggi strutturali: bassa liquidità, spread bid-ask elevati, una certa opacità nelle valutazioni, se non supportate da analisi professionali e un mercato ancora ristretto.
Tuttavia, numerosi studi confermano che il vino da investimento mostra una correlazione bassa o negativa rispetto ad azioni e obbligazioni. Questo lo rende particolarmente interessante in tempi turbolenti: può ammortizzare le perdite quando il resto del portafoglio soffre. E viceversa.
Ma attenzione: la correlazione non è statica.
Durante le crisi finanziarie, la correlazione tra asset tende ad aumentare, come si può notare nel grafico sottostante.

Asset solitamente indipendenti iniziano a muoversi all’unisono. Per questo è fondamentale analizzare la correlazione nei diversi regimi di mercato: fasi rialziste, fasi ribassiste e situazioni di panico.
Il vino da investimento può mantenere le sue proprietà di diversificazione oppure comportarsi in modo più simile ad altri asset se gli investitori devono vendere rapidamente per esigenze di liquidità.
Diversificazione all’interno del portafoglio di vino
Anche all’interno di un portafoglio di vino, la diversificazione è cruciale. Affidarsi a un solo produttore, a una singola regione o a un’unica annata è rischioso. Un portafoglio ben costruito equilibra:
- Produttori: un mix tra nomi iconici (come Lafite) ed etichette emergenti
- Regioni: Bordeaux, Borgogna, Champagne, Barolo e altre
- Annate: puntare sulle annate migliori (on-vintages) per una rivalutazione costante nel tempo, ma non trascurare le annate più deboli (off-vintages), che possono offrire opportunità tattiche interessanti.
Diversificare riduce il rischio specifico cioè il rischio legato ad un singolo vino o produttore.
Ma non elimina il rischio di mercato: il rischio legato all’andamento complessivo del settore. E negli ultimi due anni, il mercato ha attraversato una fase complessa. Un portafoglio ben diversificato non avrebbe evitato le perdite, ma avrebbe potuto attutirne l’impatto.
Il vino come indicatore di mercato?
Il vino da investimento non è solo un investimento alternativo.
Una ricerca pubblicata su The Journal of Investing da Patrick Kuok-Kun Chu ha studiato l’interazione tra gli indici del vino (in particolare il Liv-ex Fine Wine 100) e i mercati azionari. Utilizzando modelli econometrici avanzati, lo studio mostra che il vino potrebbe offrire segnali anticipatori, e che gli investitori più attenti potrebbero sfruttarli per ribilanciare i portafogli prima degli altri.
Uno dei motivi è che il vino, essendo un bene di lusso e quindi considerato “superfluo”, è anche un bene ciclico, molto influenzato dai cicli dei tassi d’interesse. Questo potrebbe spiegare la sua tendenza ad anticipare i movimenti dei mercati azionari.
Per comprendere a fondo questo legame sarebbe interessante un approfondimento con ulteriori studi.
In sintesi
Possedere asset che si comportano in modo diverso riduce il rischio complessivo del portafoglio.
Un principio che vale per la finanza ma, come insegna il proverbio, anche per la vita!
Il vino da investimento non è la soluzione a tutto.
Ma, integrato con intelligenza, può rendere il portafoglio più stabile. E, magari, aiutare a intuire in anticipo in che direzione si muoverà il mercato!